Il presidente del
Senato: «Io ai duelli tv? Non mi candido per X Factor». «Loro gridano onestà
tre volte? Be’, io lo posso dire anche cinque»
di Massimo Franco
Lasciate che i grillini
vengano a me. E si convertano alle istituzioni. Non lo dice proprio con queste
parole. Ma la strategia di Pietro Grasso, presidente del Senato e leader di
Liberi e uguali, la sinistra alternativa al Pd, sembra proprio questa:
convincere ad andare alle urne chi negli ultimi anni si è astenuto. E
«riportare a casa» i voti di quei settori dell’opinione pubblica che, per
rabbia o per protesta, hanno gonfiato le percentuali del M5S. «Loro gridano
onestà tre volte? Be’, io lo posso dire anche cinque», rivendica. Su Matteo
Renzi, invece, Grasso è stranamente cauto; idem su Maria Elena Boschi: guarda
oltre. E spiega perché ha deciso di fare politica mantenendo la seconda carica
dello Stato.
Non ha scelto bene il
momento per diventare un capo partito. Il Senato è esposto.
«Veramente, il Senato è
stato esposto da una legge elettorale votata senza permetterci di discuterla
dopo il sì della Camera; e dopo cinque voti di fiducia. A quel punto ho sentito
l’esigenza di dare un segno di discontinuità politica uscendo dal Pd. Prima ho
fatto quello che dovevo, garantendo che andasse in porto per dovere
istituzionale. Poi ho preso carta e penna, senza consultare nessuno, e ho
comunicato che lasciavo il Pd. La tempistica non è stata una mia scelta. Non ho
pensato al seguito, e invece si è innescato un meccanismo che mi ha portato a
impegnarmi direttamente in politica. È la prima volta, ma lo faccio con
convinzione e vero entusiasmo».
Il Senato è uscito
rilegittimato dal referendum del 4 dicembre del 2016. Non teme di
delegittimarlo?
«Per pronunciarmi ho
aspettato l’approvazione in prima lettura della legge di Bilancio. E comunque,
no: ho mantenuto una perfetta indipendenza e autonomia. L’ho fatto in questi
anni e continuerò a farlo ancora di più ora. I tempi stretti della legislatura
mi hanno indotto a compiere il passo finale. D’altronde, quando tre ragazzi,
Speranza, Civati e Fratoianni sono venuti a propormi il loro progetto, ho
capito che potevo e dovevo rendermi ancora utile».
I «tre ragazzi» fanno
pensare a Liberi e uguali come a una «Cosa rossa» aggiornata; e che li abbiano
mandati Bersani e D’Alema.
«Tecnica antica, quella
di demonizzare qualcuno per inficiare il ruolo di altri. Non sono mai stato
strumento di nessuno, né da magistrato né adesso. L’etichetta di «Cosa rossa»
era stata confezionata dagli avversari prima ancora che l’operazione partisse.
Il progetto è diverso».
Lo è riuscito a
cambiare lei?
«Certo vogliamo
cambiarlo. Il coinvolgimento di Rossella Muroni, fino a ieri presidente di
Legambiente, è un primo segnale. Ci rivolgiamo a settori del mondo cattolico,
dei sindacati, di associazioni, in una parola dei corpi intermedi. Parliamo a
una realtà potenziale molto più larga da coinvolgere. Il mio obiettivo è
costruire un movimento dal basso che riduca le disuguaglianze e la povertà. La
parola leader non mi piace».
Nel simbolo c’è il suo
nome.
«Ero contrario, se non
altro per pudore. Ma era necessario per farci riconoscere: succede alle nuove
formazioni, anche «+Europa» ha messo il nome della Bonino».
Perché non si è
dimesso?
«Invece di risolvere un
problema, ne avrei creati alle istituzioni. Problemi seri, con i numeri del
Senato in bilico e al termine della legislatura. Sarebbe stato un ulteriore
elemento di instabilità».
Lei non è uomo da
duelli televisivi duri. Parteciperà ai confronti in tv?
«Mi candido per il
Parlamento, non per X Factor. Non mi interessa affascinare, né scontrarmi
secondo logiche che non mi appartengono. La mia idea di politica non è la
battaglia televisiva ma presentare la soluzione dei problemi. Se è necessario
parteciperò ai confronti ma non amo gli scontri. Io voglio partire dai valori
di sinistra con un progetto che guardi ben oltre le elezioni».
Come convincerà gli
elettori che il voto a voi è utile, e non favorisce M5S o centrodestra?
«Guardi, noi ci
proponiamo come sinistra di governo non come fine ma come mezzo per cambiare la
rotta su lavoro, scuola, sanità. E vogliamo spiegare che non serve un voto solo
di protesta. In più, con questo sistema, di fatto proporzionale, non ci sarà un
vero vincitore. La storia del voto utile non regge».
Non ci sarà un
vincitore ma la sinistra si candida a essere perdente.
«Vogliamo riportare al
voto chi oggi si astiene perché deluso. Il Pd i consensi li ha già persi con
l’astensione o col voto al M5S. Contiamo di recuperarli dando un’alternativa».
Il Pd continuerà a
perderli?
«Lo dicono i dati. Noi
saremo la rete che raccoglierà quel consenso prima che vada altrove».
Influisce l’andamento
dei lavori della Commissione d’inchiesta sulle banche?
«Bisogna aspettare che
finisca i lavori per capire meglio».
Nel suo partito c’è chi
chiede le dimissioni di Boschi.
«Non affronto il
problema delle sue dimissioni. O senti di darle per tue ragioni personali, o
perché te le chiede qualcuno a cui non puoi dire di no. Per ora non si sono
verificate queste condizioni».
Quanto influisce sulle
difficoltà del Pd la sconfitta referendaria del dicembre 2016?
«Il referendum ha
mostrato una partecipazione di popolo straordinaria. Molti hanno visto nella
riforma, collegata con l’Italicum, un indebolimento della nostra democrazia. Le
riforme vanno fatte con un altro approccio: merito e metodo di quella riforma
l’hanno resa un’occasione mancata».
Le è pesato molto
gestire il referendum dal Senato che doveva essere abolito?
«Fa parte del ruolo
gestire con imparzialità provvedimenti che posso anche non condividere».
Cosa votò al
referendum?
«Prima che arrivasse in
Aula avevo espresso le mie perplessità, ma non mi sono espresso durante la
campagna e non lo farò neanche ora».
Quindi potrebbe anche
votare Pd e non dirlo.
«Rispondo con una
battuta: se venisse sulla nostra linea... ma non mi sembra possa accadere. Io
sono inclusivo, non metto veti».
Non è troppo facile
prendersela con Renzi oggi? Per anni la nomenklatura del Pd, compresi alcuni
che stanno con lei, non hanno fiatato.
«Non sono tra quelli
che ne fanno una questione personale: ho avvertito una distanza crescente con
le politiche attuate, e non ne ho fatto mistero. La campagna elettorale si fa
sui contenuti. Se non c’è Renzi ma si continua con la stessa politica, le
distanze con noi non si accorciano».
La descrivono come
possibile garante di un M5S che si avvicina al governo.
«Su molti temi, a
cominciare dall’Europa e dalla moneta unica, siamo distanti: pensare a un referendum
sull’euro, tra l’altro, non è previsto dalla Costituzione. Più che parlare col
M5S dopo le elezioni, preferisco parlare ora con i suoi elettori, convogliando
la loro rabbia nell’ambito istituzionale. Vorrei riportarli a casa».
Vuole togliere voti al
Pd e a Grillo?
«Non metto limiti,
magari convinceremo anche elettori di centrodestra: quelli che prima erano i
problemi di pochi sono diventati problemi di molti: precari, giovani
professionisti, chi ha una piccola attività, una partita Iva».
Ha qualcosa da
rimproverarsi per la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore?
«Ho applicato la legge
Severino e il regolamento del Senato. E l’Aula nella sua sovranità ha votato».
Vorrebbe che
partecipasse alla campagna elettorale?
«Già partecipa».
Come candidato.
«Non dipende da me».